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I ventincinque anni di Nevermind

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Qualche giorno fa Nevermind ha compiuto 25 anni. Questo pezzo (uscito sull’Unità, che ringraziamo) ricorda il disco dei Nirvana.

Il grunge, la musica di Seattle che si sviluppa a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta all’insegna del suono di chitarra e di una forma canzone di stampo tradizionale, mescolando (in differenti dosi a seconda dei casi) l’hard rock anni ’70, il punk, il noise, l’heavy metal, l’alternative rock e il pop, ha il suo manifesto in un disco uscito 25 anni fa. Nevermind dei Nirvana, infatti, basta da solo a spiegare le dinamiche su cui si tiene l’intero movimento musicale.

Seattle si avvia a diventare una città prospera, al centro del boom che negli anni novanta ruota attorno alle nuove tecnologie; la Microsoft ha funzionato come catalizzatore per la creazione di un esteso regno industriale, e le risacche di malcontento giovanile, successive alla crisi economica degli anni ottanta, vibrano di una rabbia subito depurata del suo lato distruttivo: per quanto verace il sentimento che ne è alla base, il grunge viene immesso all’interno di un ciclo produttivo e diventa brand non appena esce allo scoperto, col video di Smells like teen Spirit.

Il malessere che informa tutta la musica di Seattle nasce in un certo senso già filtrato ed edulcorato, messo al servizio del business per macinare vendite multimilionarie e ottenere un airplay costante, oltre che su MTV (il video viene passato con una frequenza inusitata), nelle camere degli adolescenti. L’irruenza della musica viene incanalata sui binari di un nihilismo innocuo per la società; non c’è nessun cambiamento, nessuna rivoluzione, nessun attivismo nel grunge, piuttosto la sensazione che tutte queste istanze siano ormai andate perse: e per questo, paradossalmente, una musica autodistruttiva come quella di Seattle diventa perfettamente funzionale all’America conservatrice di George H. W. Bush.

Non solo; probabilmente il motivo della sua diffusione a livello planetario dipende proprio dal suo rinunciare a qualsiasi velleità di relazionarsi al contesto storico, puro e semplice paradigma di un rifiuto astratto e generalizzato verso le cose, come può esserlo quello che caratterizza la crescita psichica di qualsiasi giovane: buono per un 14enne americano così come per un suo coetaneo europeo.

Tutto ciò si rivela lesivo per alcuni artisti che fanno parte della scena (quelli che finiranno per orientare contro se stessi quella violenza senza sbocchi), ma allo stesso tempo dà la stura a una serie di epigoni, gruppi finto grunge, band che riadattano il loro suono per sfruttare l’appeal di un genere che alla resa dei conti avrà vissuto solo qualche anno di gloria commerciale, prima di sprofondare nel dimenticatoio delle musiche obsolete.

La storia di Nevermind è nota a chiunque: il disco stampato in poche decine di migliaia di copie; il successo, straordinario e inaspettato, che tramuta Kurt Cobain nel refrattario portavoce di un’intera generazione; la narrazione agiografica che ne deriva, tutta improntata sulla vita del frontman. E se è vero che il grunge si regge sul paradosso di essere musica dell’autodistruzione ma al tempo stesso perfettamente integrata al sistema, questa dicotomia prende forma nel disco in una specie di dissonanza cognitiva.

La tipica alternanza di parti quiete e momenti strillati all’interno dei brani, che in band come i The Pixies (ai quali i Nirvana si ispirano) costituisce una geniale trovata formale, diventa ora il sinonimo della condizione dell’individuo incastrato in una gabbia; i testi, che dovrebbero (secondo la vulgata popolare) esprimere lo spirito adolescenziale del tempo, sono un miscuglio di nonsense e involuta introspezione volti a cogliere non la realtà, ma la suggestione di una realtà a cui non si può (o non si vuole) avere accesso; la stessa valutazione che il gruppo fa delle proprie canzoni è dicotomica: alla fine del lavoro svolto con Butch Vig alla console, non completamente soddisfatti del risultato finale, la band e il loro stesso produttore chiedono ad Andy Wallace di mettere mano ai mix.

Lo stesso Vig afferma che Cobain si fosse detto entusiasta del prodotto ottenuto in seguito a quell’intervento. Ma qualche tempo dopo il gruppo si dichiara insoddisfatto del suono “troppo pulito” dell’album: Cobain arriva a dire che Nevermind suona imbarazzante: “più vicino ai Motley Crue che ad un disco punk”.

Perfino la canzone più famosa dell’album si basa su un disguido: Kathleen Hanna, la cantante delle Bikini Kill, aveva scritto con la vernice spray la frase “Smells like teen Spirit” sulla parete della camera da letto di Cobain, il riferimento era a una nota marca di deodoranti usata all’epoca, il Teen Spirit. Equivocando il significato di quel messaggio, pensando si riferisse alla loro conversazione su punk e anarchia avuta la sera prima, Cobain elabora un testo istintivo: una specie di flusso di coscienza. Per terminare la catena dei fraintendimenti, la critica musicale lo prende come un brano dalla lucida visione generazionale.

Un’altra contraddizione su cui si regge Nervermind, e il grunge tutto, è il suo dare voce alla nuova musica del momento tramite la riappropriazione di codici vecchi. Nel dna dei Nirvana, diversamente da altre band di Seattle affascinate dall’aspetto più virtuosistico di certo rock anni ’70 (si pensi ai lunghissimi assoli dei Pearl Jam), o dalla muscolarità dell’heavy metal (i primi Soundgarden e Alice in Chains), sono evidenti influenze più “appetibili”.

Cobain non è immune al fascino di rockstar come David Bowie e John Lennon, e la sua cifra melodica lascia trasparire una ricerca in tal senso; così come influisce su di lui la lezione dell’alternative rock più “arty” e abrasivo (dai sopra citati The Pixies ai Sonic Youth) ma anche di quello più impressionista (i R.E.M.), Se, quindi, il suono di Nevermind si apre a influenze più disparate e ad un respiro più pop di molti altri dischi usciti nello stesso periodo, allo stesso tempo non rappresenta nulla di lontanamente innovativo: la famosa Smells like Teen Spirit contiene, per esempio, (a detta dello stesso Dave Grohl che l’ha ideato) il riadattamento di uno storico riff dei Boston; la quasi altrettanto celebre Come as you are è costruita sul riff, rallentato, della canzone Eighties dei Killing Joke.

Poco male; ciò che eleva l’album dal cliché è il modo in cui queste canzoni vengono eseguite: la visceralità, il trasporto e l’adesione totale che trapelano dai solchi del disco, rendendolo autentico. Una pietra miliare basata sulle contraddizioni, collocata in una terra di mezzo, come ha dichiarato il bassista dei Nirvana Krist Novoselic citando un verso dalla canzone In Bloom: “He’s the one who likes all our pretty songs (Lui è quello a cui piacciono tutte le nostre canzoni carine)”. “Nevermind è questo – ha detto – è pop. Semplicemente ha delle chitarre pesanti. Un disco leggermente decentrato, ma pur sempre in relazione a un centro”.

Nato a Roma nel 1977. Ha scritto per il supplemento di Repubblica Musica! Rock & Altro, è autore di brani musicali e suona nei Carpacho! e nei MiceCars. Si occupa di cultura sul sito de l’Unità.

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